La sconfitta delle élites pubbliche

Il processo di Globalizzazione, che raggiunse il suo apice con la vittoria della visione atlantica sul Comunismo e il trionfo dei valori di Bretton Woods, incontrò i primi ostacoli dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York e, in particolare, allo scoppio della crisi dei crediti subprime, negli Stati Uniti.

Sul futuro è possibile tratteggiare due scenari risolutivi: o la fine del Mercatismo scuoterà l’establishment finanziario, armonizzando il dualismo tra élites private ed élites pubbliche, che vede queste ultime regolarmente sopraffatte dalle prime; o assisteremo a trasformazioni di natura autocratica, con un deterioramento graduale delle garanzie e dei diritti.

In Occidente, dal 1945, la democrazia ha dato prova di funzionare in modo abbastanza ordinato, grazie al consolidamento della distinzione dei poteri, del suffragio universale e del welfare state. Un esito convalidato anche dalle transizioni relativamente pacifiche dei paesi dell’Europa orientale dopo il 1989, eccezion fatta per il caso dell’allora Jugoslavia.

L’articolazione dei poteri pubblici, tuttavia, versa in una crisi profonda. Per usare un gioco di parole, i policy makers hanno permesso la concentrazione di una ricchezza dissennata nelle mani di pochi (le élites private) a danno di molti (i cittadini). Questa sperequazione ha sospinto una larga parte dei molti ai limiti della sopravvivenza, laddove i pochi continuano ad accedere a informazioni e risorse, in primis per ostacolare la prospettiva di un cambiamento dei rapporti di forza.

Fukuyama[1], che dopo il 1989 prevedeva la fine della Storia come un esito felice per la civiltà occidentale, prese un grande abbaglio. Il motivo centrale non era la fine della Storia, ma co­­me essa sarebbe potuta procedere in relazione a problemi inediti, che le élites pubbliche, poi, non sono state capaci di risolvere.

I flussi inarrestabili di rifugiati politici e di migranti economici dal Medio Oriente e dall’Africa, il sovvertimento minskyano delle “regole del gioco”[2] monetarie e finanziarie, la fine del lavoro, la crisi del welfare state, l’umanizzazione delle macchine, il rischio del bio-terrorismo, le pandemie, le guerre per l’energia, il Jihādismo, le diseconomie delle reti informatiche, rappresentano i problemi inderogabili, che troveranno soluzione con politiche democratiche o tecnocratiche o autocratiche.

Moltissimi politici, che esprimono una parte delle élites pubbliche, continuano a confondere il mercato con il capitalismo; e come sonnambuli incoraggiano l’idea, del tutto irrealistica, che la politica possa procedere anche a prescindere dal mercato, quindi inficiandone il funzionamento o sconfessandone la logica.

Un esempio rivelatore è quello del britannico Corbyn, che durante l’ultima campagna elettorale ha ottenuto due obiettivi, entrambi inservibili: da un lato ricompattare le forze di sinistra, in termini di appartenenza, di linguaggio, ma non di fiducia nel mercato; dall’altro mettere in guardia gli investitori, accarezzare la Brexit, attaccare la Nato.

Per usare le parole di Paolo Savona: «Se una politica non segue i numeri, dà i numeri»[3].

Per di più, le élites pubbliche cessano di essere composte da «esseri eccezionali»[4], falliscono perché le politiche e le procedure sono diventate inefficaci, soprattutto in ordine alle trasformazioni tecniche avvenute nella società, e il loro carisma, in senso “magico”, non è più istitutivo di nulla, cessa di «compiere cose ritenute impossibili»[5].

Il risultato è uno speculare populismo, di destra e di sinistra.

In Francia, l’esperienza di Emmanuel Macron costituisce una possibile ibridazione fra i valori liberal-democratici e la richiesta delle élites di governare i processi di ristrutturazione, in particolare del sistema della difesa e del welfare state, anche per allocare in modo efficiente risorse scarse. http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2017/04/26/il-modello-macron-o-lorbita-orientale/25553/

In presenza di dualità quali città/campagna, centro/periferia, inclusione/esclusione, ossia le vere incubatrici dell’odio verso la Globalizzazione, l’estensione di questo modello potrebbe scongiurare un ripiegamento definitivo dei sistemi politici nella forma anti-storica dello Stato-nazione.

Durante la prima metà del Novecento, anche i Totalitarismi hanno rappresentato una reazione nazionalistica e dispotica a fenomeni di mondializzazione, provocando le conseguenze mostruose che conosciamo.

Bisogna individuare nuove modalità di selezione delle élites pubbliche; riequilibrare il dualismo diritti/doveri, a partire dal system of origin rules, nella forma, nella sostanza e nelle procedure; scrivere in modo sistemico le nuove regole della competizione economica dentro il mercato globale e mettere le innovazioni tecniche «al servizio dell’interesse generale»[6].

Il sommo Friedrich Schiller scrisse: «Nemmeno il più zelante può vivere nel benessere se le circostanze prendono una brutta piega»[7].

[1] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.

[2] Minsky H.P., John Maynard Keynes, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[3] Paolo Savona, J’accuse: il dramma italiano di un’ennesima occasione perduta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015.

[4] Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Laterza, bari 1985

[5] Ibidem

[6] Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014

[7] Friedrich von Schiller, Storia della guerra dei Trent’anni, Aurelio Picco, Milano 2015.

MARCO ROTA

Analyst on country risk and political intelligence

marcorota@usa.com

Condividi:

About the author: Redazione