Le guerra economiche e il ruolo dell’intelligence di Antonio M. Rinaldi

Scopo della relazione è quello di analizzare la rapida evoluzione del concetto di guerra economica e in particolare quella in atto all’interno dei cosiddetti paesi alleati e quale ruolo può avere l’intelligence economica in questi mutati scenari.

Ai tempi della caduta del Muro di Berlino si sentiva sovente ripetere che il marco stava alla Germania come l’arsenale atomico alla Francia e che sarebbe stato più proficuo per tutti giungere ad una rapida integrazione fra i paesi europei per poterla mettere sotto “tutela” al fine di limitarne gli effetti dovuti alla ritrovata “esuberante” forza, questa volta economica. Idealmente possiamo infatti indicare quell’evento storico come l’inizio di una nuova era, una sorta di spartiacque in cui le relazioni e gli equilibri geopolitici e economici avrebbero assunto forme e dimensioni completamente diverse dal passato non solo nel Vecchio Continente, ma con ripercussioni nell’intero scacchiere internazionale. Sia chiaro: se oggi ci fosse ancora il Muro di Berlino, cioè se esistesse integra la contrapposizione fra la NATO e il Patto di Varsavia così come ai tempi della Guerra Fredda, il ruolo dell’intelligence economica sarebbe comunque altresì stato importantissimo, ma sviluppato in termini di obiettivi e dinamiche molto diversi rispetto agli attuali.

A distanza di 28 anni da allora possiamo constatare come il concetto di “guerra economica” ha subìto una radicale trasformazione e nel contempo stesso una profonda evoluzione, passando essenzialmente da interessi settoriali a condizionamenti di sempre più interi sistemi paese capaci di influire in modo molto più profondo, efficace e risolutivo per il controllo di intere aree economiche ritenute essenziali ai fini degli interessi strategici nazionali con l’aggiunta della presenza sempre più massiccia di multinazionali che hanno nel frattempo assunto per dimensioni, forze e influenze assimilabili a quelle proprie degli stati sovrani con ulteriori capacità trasversali di alleanze e strategie.

Nel 1990 Edward Luttwak metteva in guardia dell’avvento di un nuovo ordine mondiale in cui l’economia e la finanza avrebbero preso il posto degli eserciti. Le nuove guerre non sarebbero state più combattute dai soldati in divisa agli ordini di Stati Maggiori, ma da dirigenti e funzionari pubblici e privati in giacca e cravatta con a disposizione strumenti giuridici e tecnologici molto più devastanti dei cannoni e delle corrazzate. L’obiettivo infatti sarebbe stato sempre più la conquista di leadership in più ampi settori economici possibili utilizzando il capitale con il supporto di nuove e rafforzate entità sovranazionali capaci di attivare strumenti più risolutivi delle armi e superiori per potenza, capacità di conquista e strategia a qualsiasi esercito convenzionale.

Alla caduta del Muro di Berlino l’Italia purtroppo non si rese conto di aver vissuto in una sorta di protettorato economico-militare statunitense per circa 45 anni, ottenendone indubbi vantaggi (cfr. quarta potenza economica mondiale). Invece di fare il salto di qualità “bonificando” il passato, zeppo di “peccati” e di incrostazioni ormai outdated, fece finta di nulla, costringendo a una correzione forzosa dello status quo sistemico per mezzo della magistratura. Non è un caso che fu proprio la chimica italiana, divenuta temibile dal connubio pubblico-privato con ENIMONT, ad essere messa sotto assedio straniero a inizio anni ‘90 dello scorso millennio, ovvero il conglomerato che conservava il retaggio delle maggiori competenze industriali nazionali, guarda caso poi conquistato gran parte dai francesi, in varie fasi, con innegabili supporti interni, solo 10 anni dopo. C’è da notare come ai tempi l’apparato statunitense, non interessato ad un annichilimento del miglior alleato non anglosassone in Europa, si prodigò per fermare la deriva italica per il tramite di un proprio peso massimo, lo stimato Ambasciatore Reginald Bartholomew (assieme all’oriundo Giudice della Corte Suprema Antonin Scalia). Purtroppo il temporaneo blocco della “riforma” del sistema paese per via giudiziaria imposto da Washington non fu cristallizzato dai governi successivi. Oggi, dopo varie vicissitudini, ne subiamo le conseguenze.

Inoltre, complice la sempre più dilagante globalizzazione dei mercati dovuta alla esasperata finanziarizzazione dell’economia, figlia legittima della liberalizzazione della circolazione dei capitali senza tuttavia nessun tipo di regolamentazione che ne delimitasse limiti e ruoli, la funzione dell’intelligence economica demandata al controllo, prevenzione e monitoraggio è divenuta quanto mai essenziale e strategica per la preservazione dell’interesse nazionale e addirittura, come vedremo più avanti, necessaria per scongiurare tentativi di minare irreversibilmente la stessa identità e integrità nazionale. Globalizzazione che ha, nel suo disordinato sviluppo, attivato e favorito parallelamente fenomeni epocali di migrazione di massa, che per dimensioni assunte d’impossibile gestione per la mancanza totale di corrette strategie condivise, innescato conflitti di tenuta sociale all’interno di molti paesi al punto da far nascere il più che fondato sospetto che ci siano a monte delle precise pianificazioni a danno specifico di qualcuno. Anche la deindustrializzazione italiana, avvenuta senza soluzione di continuità durante l’ultimo ventennio, dovrebbe essere considerata con questo metro di valutazione.

Negli ultimi anni l’evoluzione del concetto stesso di guerra economica è avvenuta, come detto, in modo esponenziale anche perché ci si è avvalsi sempre più di istituzioni sovranazionali in virtù di accordi internazionali e di libero scambio che non hanno

rispettato la simmetricità fra le forze, capacità e economie delle parti in causa, con l’effetto de facto di condizionare interi sistemi paese in subdoli predomini. I primari obiettivi di influenza si sono trasformati quindi non più tanto sforzandosi verso acquisizioni di singole aziende depositarie di tecnologie appetibili o funzionali alle proprie, ma mirate direttamente al cuore di interi sistemi paese tali da raggiungere ancora più facilmente il controllo di conglomerati settoriali di aziende complementari alle proprie esigenze economiche e strategiche nazionali .

D’altronde il modello neo liberista dominante a supporto della globalizzazione è quello di far accettare regole di mercato da parte degli Stati, ma contemporaneamente prodigandosi in modo da privare quest’ultimi degli essenziali poteri correttivi tesi a mitigare le inevitabili conseguenti asimmetrie. Consideriamo ad esempio il WTO: non solo non prevede specifiche sanzioni ai membri che ne contravvengono le regole, ma invita a farne parte paesi fortemente competitivi (il palese riferimento è alla Cina) senza preventivi accordi sui cambi, esponendo alla scontata vulnerabilità economica e sociale molti altri paesi.

Come d’altronde anche l’Unione Europea la quale, avvalendosi di una stessa moneta a fronte di un mercato unico, nella pratica mai realizzato, e ponendo come condizione di partecipazione e mantenimento dello status di appartenenza il rispetto di precisi e stringenti parametri macroeconomici, ha creato nel tempo sempre più squilibri economici e sociali all’interno degli aderenti facendo acquisire forti posizioni di leadership a favore di pochi e pesanti sudditanze economiche e politiche a molti. L’immenso surplus commerciale tedesco maturato negli ultimi anni ne è la più palese dimostrazione.

Tutto questo è stato possibile perché è stato adottato omnibus un modello economico a supporto della moneta unica il quale prevedeva e prevede essenzialmente la stabilità dei prezzi, cioè il contenimento dell’inflazione secondo prefissati target e il rigore dei conti pubblici fino al perseguimento del pareggio di bilancio come presupposto per la crescita con la maggioranza dei paesi eurodotati costretti obtorto collo a modificare radicalmente il proprio modello fino ad allora adottato con conseguenze negative a carico dei rispettivi sistemi paese. Ricordiamo che il modello economico di riferimento di qualsiasi paese deve scaturire dalla risultante di moltissimi fattori che tengano conto non solo dei propri dati macroeconomici e dello specifico DNA della struttura economica, ma anche dagli obiettivi sociali che si intendono perseguire. Adottarne un altro tout court, magari ad immagine e somiglianza di un partecipante dominante, o di un ristretto gruppo di essi, all’interno di un regime economico molto rigido come quello espresso dai cambi fissi, significa senza mezzi termini aumentare l’egemonia di questi e condannare alla sudditanza economica tutti gli altri.

L’Italia adottava in precedenza a Maastricht il modello economico tracciato dalla costituzione economica insita nella Carta Costituzionale il quale poneva come presupposti fondamentali, imprescindibili e non negoziabili, e li pone ancora oggi, la piena occupazione e circostanziate tutele sociali che però via via non sono più garantibili perché non compatibili con il rispetto dei vincoli esterni dei trattati e dal ginepraio dei regolamenti europei emanate a loro supporto. Aver modificato l’art.81 della Costituzione nel 2012, inserendo il principio del pareggio di bilancio in ottemperanza a quanto suggerito dal Fiscal Compact, ha provocato un cortocircuito nel modello economico costituzionale, annullando nella pratica la sua attuazione.

In questi scenari l’unica forza che avrebbe potuto ristabilire forme di equilibro, o almeno mitigare gli squilibri, sarebbe stato l’intervento attivo delle rispettive politiche nazionali, ma il meccanismo delle regole sancite dagli stessi trattati e regolamenti europei stanno ormai bypassandole estraniandole di fatto da qualsiasi potere decisionale nazionale affidando invece sempre più, come da tempo sostiene il prof. Giuseppe Guarino, a dei veri e propri meccanismi automatici bio-giuridici la governance dell’intera area dell’Unione Europea ormai irrimediabilmente ostaggio di poteri dominanti e di lobby finanziarie e industriali. Così molti paesi vedono minare impotenti i propri sistemi finanziari bancari assicurativi, spezzare le filiere produttive, le produzioni agricole, la dislocazione dei propri siti produttivi, ecc…, determinando in questo modo l’aumento dalla dipendenza estera settoriale sia nei confronti di altri Stati che di gruppi di multinazionali e parallelamente scatenando conflitti sociali di difficile gestione.

Ormai le guerre economiche si conducono e si vincono in questo modo: non più tanto appropriandosi in modo fraudolento di brevetti o know how aziendali, come sempre avvenuto in passato, ma minando dall’interno le economie stesse per renderle più vulnerabili e dipendenti dall’esterno. In tale contesto va certamente stigmatizzato il potenziale uso inopportuno, se non indebito, di sistemi informatici di intercettazione (trojan) senza una adeguata e/o sufficiente regolamentazione, soprattutto in merito ai prevedibili effetti che ciò potrebbe avere nell’ambito dell’attività economica di soggetti industriali nazionali in particolare per le proprie attività all’estero. Non dimentichiamo infatti che, come evidenziato dal TJN [Tax Justice Network, cfr. Financial Secrecy Index 2015], i principali competitors industriali europei (soprattutto tedeschi) possono contare su un sistema paese che li mette in gran parte al riparo da condizionamenti operativi relativamente ai business svolti all’estero. Per l’Italia ci si aspetterebbe una conformità regolamentare, vista l’impossibilità di richiedere agli altri di uniformarsi alle stringenti  normative e soprattutto prassi italiane.

Si ha ormai la netta percezione che alcuni paesi, formalmente legati da vincoli come quelli aderenti all’Unione Europea e più in particolare all’unione monetaria, utilizzino le regole comuni non per giungere ad una effettiva integrazione solidale con criteri redistributivi, così come originariamente paventato all’opinione pubblica per ottenerne il consenso, ma per esercitare influenze ed egemonie “pro domo sua” nei confronti degli altri associati. E’ ormai sempre più palese che le regole comunitarie siano utilizzate più come metodo di governo sovranazionale in surroga alle istituzioni nazionali, le quali in ogni caso sono preposte democraticamente dal suffragio universale, che come effettivo sistema di integrazione.

Germania e Francia pongono sempre come obiettivo primario la salvaguardia dell’interesse nazionale e ben si guardano nel cedere gli strumenti per poterlo perseguire (spesso in netta asimmetria rispetto a quanto viene invece richiesto agli altri paesi partner). Addirittura possono farsi forte delle proprie consulte le quali non mancano mai di ribadire chiaramente la subordinazione della legislazione europea rispetto a quella nazionale in modo da garantire intatti ottimali strumenti per la tutela e conservazione dell’interesse strategico nazionale.

L’intelligence economica in questo nuovo contesto come può agire? Secondo Carlo Jean e Paolo Savona, l’intelligence economica è quella disciplina che “si prefigge di affinare le abilità cognitive e decisionali applicate alla complessità del contesto competitivo globale, attraverso l’analisi del ciclo dell’informazione necessario alle imprese e agli Stati per effettuare scelte corrette di sviluppo”. Alla luce dell’evoluzione in atto però è necessario fare un ulteriore salto in avanti per poter valutare correttamente l’esposizione ai fortissimi rischi per le nostre aziende e per l’intero sistema economico nazionale. L’Italia rappresenta una preda ottimale a livello mondiale e a riprova di quanto è stato fin ora sostenuto è evidente l’essere diventata un immenso outlet dove si viene a fare shopping a prezzi di saldo nell’indifferenza più totale da parte delle istituzioni. Come le stesse stagioni delle privatizzazioni compiute in nome del risanamento dei conti pubblici per poter dimostrare di essere a pieno titolo nell’Unione Europea, sono state effettuate cedendo letteralmente gioielli di famiglia alla concorrenza estera e nel migliore dei casi esponendole alla successiva conquista, senza minimamente ottenere lo scopo prefissato.

Pertanto l’intelligence economica sia “difensiva” che “offensiva”, demandata per definizione al servizio dello Stato per il monitoraggio e alla prevenzione di azioni che

possono procurare nocumento all’economia e alla stessa stabilità nazionale, deve attivarsi in sempre più complesse analisi che tengano conto di sofisticatissimi intrecci di interessi alla luce di ogni iniziativa normativa scaturita da accordi internazionali.

Ma tuttavia il problema di fondo da evidenziare è che l’intelligence economica italiana si avvale di strutture e personale qualificatissimo perfettamente in grado di percepire e analizzare tutte le dinamiche di questi nuovi scenari e di trasmetterne il corretto flusso informativo alle istituzioni e all’esecutivo politico, ma sono queste ultime forze ad essere impotenti non avendo più a disposizione gli strumenti per poter agire poiché evirate della maggior parte dei poteri d’intervento per perseguire l’interesse strategico nazionale.

Se non sono stato chiaro fino a questo punto si sappia allora, senza fraintendimenti, che siamo già in piena e devastante guerra economica. Il precipitare dei rapporti fra gli Stati Uniti d’America e l’Europa germanocentrica sta determinando, come non avveniva dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, al rapido deterioramento degli equilibri politici e geopolitici internazionali. L’Italia in tutto questo ha un ruolo determinante non per altro perché la forza e capacità della sua industria (nonostante tutto è ancora la seconda potenza manifatturiera in ambito europeo e ottava mondiale), per la sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo e per il cospicuo patrimonio immobiliare, capacità di reddito e di risparmio in possesso dei cittadini che fanno sì che sia un grande e appetibile mercato di consumo di beni e servizi.

In questo contesto va evidenziato come l’apparato di sicurezza nazionale (forze di polizia, intelligence etc.) siano inevitabilmente plasmate in funzione della collaborazione con Washington, che datano senza soluzione di continuità da prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. Ciò si scontra con gli attuali indirizzi della politica nazionale che sembrano sempre più eurogermanocentrici, soprattutto in vista di un probabile confronto tra l’Europa a baricentro tedesco e gli Stati Uniti. Il rischio è dunque uno scollamento interno alle istituzioni nazionali, cosa che non deve assolutamente accadere visto ad esempio il successo nella neutralizzazione dell’obiettivo nel caso dell’attentato di Berlino (caso Amri). In ballo c’è la stessa integrità e sopravvivenza nazionale.  Desidero in particolare sottolineare come la direzione operativa dell’insieme delle forze di sicurezza italiane non possano essere considerate avulse dagli assetti interni continentali alla NATO, dove per la prima volta il comando Allied Joint Command Brossum (a difesa del territorio europeo) è in capo ad un italiano, Gen. Salvatore Farina a riconoscimento del nostro prezioso contributo, anche in termini di affidabilità ed allineamento (il comando NATO europeo è invece in capo al Gen. Statunitense Scaparroti, oriundo italiano).

In uno scenario politico europeo in cui Berlino non fa mistero di volersi emancipare dagli Stati Uniti è inevitabile che la preponderante rappresentanza italiana nella NATO rappresenti una variabile da tenere in assoluta considerazione anche in ambito di intelligence. Le interrelazioni, incluse le ricadute e le criticità occulte con la sicurezza nazionale interna ed esterna, soprattutto se in collaborazione con i principali paesi europei, le lascio ai soggetti preposti.

Concludendo, da semplice cittadino italiano ma a cui stanno ancora fortemente a cuore le sorti e la stessa sopravvivenza e integrità del Paese e stante quanto sopra presentato, se dovessi essere chiamato nel fare una scelta a quale schieramento appartenere non ho da molto tempo nessun dubbio:  senza se e senza ma con lo Zio Sam.

Antonio Maria Rinaldi Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara

antonio.rinaldi@unich.it

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